Dopo settimane di spettacoli tutt’altro che edificanti andati in scena in Puglia e Campania, diventa difficile – se non impossibile – rivendicare una qualche superiorità morale o politica del centrosinistra rispetto al centrodestra. E no, non si tratta di una resa né tantomeno di un cambio di casacca, ma di un invito alla realtà. Una realtà che pretende, oggi più che mai, una sana autocritica.
Il centrosinistra farebbe bene a interrogarsi sulle proprie idee, sulle proprie proposte e – soprattutto – sulla propria capacità di governare territori e comunità. Più che concentrarsi ossessivamente su ciò che fanno o dicono dall’altra parte. Servirebbe riscoprire una propria identità, una visione riconoscibile, fondata su contenuti reali e non su reazioni di riflesso.

Per troppo tempo, infatti, la sinistra ha sostituito la sostanza con la narrazione. Ha investito tutto su una “politica dell’empatia” declinata in chiave comunicativa e prone al potere di Roma, che si esaurisce in slogan, dirette social, pacche sulle spalle e storytelling senz’anima. Ma l’elettorato, quello vero, ha smesso di crederci da un pezzo.
Non a caso, il dato forse più drammatico, e trascurato del nostro tempo, è l’astensionismo strutturale. Un’intera fetta di popolazione, un tempo coinvolta, partecipe, perfino entusiasta, oggi si tiene a distanza. Non perché sia meno informata o meno consapevole, ma perché si sente tradita, alienata da una politica che non difende più i diritti dei cittadini e che troppo spesso appare autoreferenziale, distante, poco concreta.
È da qui che bisognerebbe ripartire. Dalla ricostruzione di un rapporto di fiducia autentico, non costruito nei laboratori comunicativi ma forgiato nel confronto con i problemi reali delle persone: lavoro, scuola, sanità, ambiente, disuguaglianze. Temi che non possono essere affrontati solo nei talk show o durante le campagne elettorali, ma devono diventare l’ossatura di un impegno quotidiano, serio, trasparente.

E invece, ciò che troppo spesso si vede è un centrosinistra bloccato in un eterno presente di campagna elettorale, prigioniero di tatticismi, veti incrociati, personalismi, alleanze spurie e tavoli di coalizione che sembrano set di un film già visto. Il risultato? Un cambiamento solo apparente. Un rimescolamento delle carte che lascia intatto il mazzo.
In questo senso, la celebre frase de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa fotografa perfettamente l’impasse: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Ed è proprio questo il rischio che corriamo: un cambiamento di superficie, funzionale a mantenere lo status quo. Ma il Paese reale non può più permetterselo. La crisi di fiducia è troppo profonda, la distanza tra istituzioni e cittadini troppo larga. O si cambia davvero – nella forma e nella sostanza – oppure si continuerà a perdere. E non solo elettoralmente.
di Cosimo Mimmo Panaro e Flavio Tropiano